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Ipertiroidismo

tiroide medea

L’ipertiroidismo  è una patologia del sistema endocrino derivante dall’eccesso di funzionalità della ghiandola tiroidea, caratterizzato cioè da un aumento in circolo di ormoni tiroidei, sia per aumento di funzione della tiroide che per distruzione della tiroide stessa. La causa più comune è il Morbo di Basedow-Graves.

L’ipertiroidismo è una delle cause di tireotossicosi, una sindrome clinica ipermetabolica che si verifica quando vi sono elevati livelli sierici di T3 e/o T4.[3] La tireotossicosi può presentarsi anche senza ipertiroidismo. Cause di tireotossicosi possono essere: una tiroidite può provocare un eccessivo rilascio in circolo di ormoni tiroidei pre-formati, oppure dopo l’ingestione di quantità eccessive di ormoni tiroidei esogeni (tireotossicosi factitia).

Quest’ultimo caso si riscontra in persone che assumono volontariamente quantità eccessive di ormoni tiroidei a scopo dimagrante: attenzione questo comportamento può provocare gravissimi danni alla salute!

Altre cause di ipertiroidismo sono il gozzo nodulare tossico e l’adenoma di Plummer, in cui formazioni nodulari si autonomizzano funzionalmente e iniziano a produrre ormone tiroideo, svincolato dal controllo ipofisario. Anche alcune terapie farmacologiche (amiodrone, sali di litio) possono causare un ipertiroidismo.

I sintomi dell’ipertiroidismo sono:

  • la perdita di peso;
  • affaticamento;
  • indebolimento;
  • iperattività;
  • irritabilità;
  • apatia;
  • depressione;
  • poliuria;
  • sudorazione;
  • pelle ingiallita.

Inoltre, nei pazienti si possono presentare una varietà di sintomi come:

  • palpitazioni e aritmia (specialmente fibrillazione atriale);
  • dispnea;
  • infertilità;
  • calo del desiderio;
  • nausea;
  • vomito;
  • dissenteria.

Talvolta, il paziente presenta bulbi oculari sporgenti e doloranti (esoftalmo) e ingrossamento della ghiandola (gozzo).

Nelle persone anziane, i sintomi classici potrebbero non comparire e manifestarsi solo con l’affaticamento e la perdita di peso.

La diagnosi avviene tramite il dosaggio ematico degli ormoni tiroidei: un incremento delle frazioni libere degli ormoni tiroidei associato ad un abbassamento dell’ormone tireotropo è specifico di un ipertiroidismo conclamato. Per stabilire quale sia la causa dell’ipertiroidismo e la conseguente congrua terapia è opportuna la valutazione specialistica.

La terapia dell’ipertiroidismo, a seconda dei casi, consta di 3 possibilità:

  • Farmacologica, con l’impiego di propiltiouracile o metimazolo.
  • Terapia radiometabolica col radioiodio.
  • Chirurgia della tiroide (raramente).
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Alimentazione e tumori, quando il cancro si previene a tavola

alimentazione medea

Una sana alimentazione associata a uno stile di vita attivo è uno strumento valido per la prevenzione, la gestione e il trattamento di molte patologie. Un regime dietetico adeguato ed equilibrato garantisce un ottimale apporto di nutrienti, in grado di soddisfare i fabbisogni dell’organismo e di svolgere un ruolo protettivo e/o preventivo nei confronti di determinate condizioni patologiche.

Sono sempre più numerosi gli studi presenti in letteratura che correlano l’importanza di una sana alimentazione e la prevenzione nello sviluppo di patologie tumorali. L’American Institute for Cancer Research ha calcolato che le cattive abitudini alimentari sono responsabili di circa tre tumori su dieci! Le evidenze dimostrano come uno stile alimentare sano vada adottato fin dall’infanzia, ma secondo alcuni studi, anche pazienti a cui è stato già diagnosticato il cancro possono trarre vantaggio da una dieta più sana.

Sicuramente esistono patologie tumorali ed organi “bersaglio” che sono più sensibili di altri agli effetti del cibo (European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition (EPIC)): tra questi si calcola che fino al 75% dei tumori dell’apparato gastrointestinale (esofago, stomaco e colon-retto)  si potrebbero prevenire migliorando le abitudini alimentari.

tumori-e-alimentazione

Importante è la scelta dei cibi anche per il tumore del fegato, organo attraverso cui passano tutte le sostanze assorbite dall’intestino, e quindi particolarmente esposto ai danni provocati da eventuali elementi cancerogeni.

L’azione locale di alcune sostanze (come ad esempio l’etanolo) può favorire lo sviluppo di tumori della bocca, della gola, dell’esofago e della laringe.
Gli studi più recenti hanno evidenziato come la correlazione tra il cibo e il rischio di cancro è molto più estesa: il tipo di alimentazione influisce infatti sullo stato infiammatorio dell’organismo, primum movens si ogni trasformazione neoplastica, e sull’equilibrio ormonale che può favorire/ostacolare lo sviluppo dei tumori della prostata nell’uomo e della mammella, dell’ovaio e dell’endometrio nella donna.

Un’alimentazione sana, che prevenga sia patologie cardiovascolari che neoplastiche, ha come prima regola la varietà dei cibi che assumiamo: è un modo semplice per garantire l’apporto di tutti gli elementi nutritivi più importanti.

L’altra regola d’oro di un’alimentazione ben bilanciata è di ridurre drasticamente l’apporto di grassi e proteine animali, favorendo l’assunzione di cibi ricchi di vitamine e fibre. Per questo occorre portare a tavola almeno cinque porzioni di frutta e verdura al giorno e privilegiare nella scelta di cereali, pane, pasta e riso quelli integrali.

Un’alimentazione di questo tipo, ricca di antiossidanti (sostanze in grado di neutralizzare i radicali liberi dell’ossigeno,dannosi per il nostro organismo) ha un’azione protettiva nei confronti delle patologie tumorali: nella frutta e nella verdura, infatti, oltre alle fibre, si trovano in misura variabile vitamina C e la vitamina E, i folati, i carotenoidi, il selenio e lo zinco.

Fondamentale è anche l’assunzione di omega-3, ottimi per la prevenzione sia cardiovascolare che tumorale, di cui sono ricchi molti tipi di pesce. Il consumo del pesce va notevolmente incoraggiato, anche come valida alternativa alla carne, che non dovrebbe essere consumata più di due-tre volte la settimana.

Si raccomanda di limitare l’assunzione delle carni rosse (ovine, suine e bovine) e di evitare quelle lavorate a livello industriale, e di quelle conservate nel sale come i salumi.  Si noti la differenza fra il termine di “limitare” (per le carni rosse) e di “evitare” (per le carni conservate) per le quali non si può dire che vi sia un limite al di sotto del quale probabilmente non vi sia rischio.

Per insaporire il cibo si consiglia di ridurre l’apporto di sale a favore dell’uso di spezie o di piante aromatizzanti.

Per quanto riguarda i latticini, due studi condotti dall’Università di Harvard, hanno correlato un eccessivo consumo di formaggi grassi e latticini fin dall’infanzia a un rischio aumentato di sviluppare un cancro della prostata. Ci sono invece indicazioni preliminari che un consumo regolare di probiotici contenuti negli yogurt e nel latte fermentato possa contribuire a proteggere l’intestino.

Tra la frutta, i principali strumenti di prevenzione sono, oltre alle arance ricche di vitamina C, l’uva e i frutti di bosco, un vero concentrato di sostanze antiossidanti che proteggono il DNA da mutazioni potenzialmente cancerogene. Particolarmente prezioso è il ruolo delle antocianidine contenute in questi frutti rossi, soprattutto mirtilli e fragole che, come mostrano recenti studi, hanno un ruolo protettivo verso l’intestino, la gola, lo stomaco, l’ovaio e i reni.

Molto spesso, erroneamente, le persone ritengono che la prevenzione delle patologie tumorali risieda in esami complessi e costosi. Le evidenze ci dimostrano sempre più che una grande percentuale di prevenzione è nelle mani di ognuno di noi: uno stile di vita sano riduce l’incidenza di tumori del 30%!

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Il diabete gestazionale

diabete gestazionale medea

Il diabete mellito gestazionale (GDM) è caratterizzato da una intolleranza al glucosio di entità variabile, che inizia o viene diagnosticata per la prima volta in gravidanza e, nella maggior parte dei casi, si risolve non molto tempo dopo il parto. È necessario documentare la risoluzione della condizione dopo il parto, poiché vengono erroneamente diagnosticate come affette da GDM numerose donne in gravidanza con diabete di tipo 2 non diagnosticato in precedenza.

E’ noto dalla letteratura, come doone con diagnosi di GDM abbiano un rischio un rischio aumentato di sviluppare diabete mellito di tipo 2 (definito con un test da carico di glucosio o con glicemia plasmatica a digiuno) almeno 6 settimane dopo la fine della gravidanza.

Negli ultimi anni c’è stata una crescita notevole di questa patologia in tutto il mondo, probabilmente a causa dell’aumento d’incidenza dell’obesità e della riduzione dell’attività fisica, entrambi fattori di rischio per la patologia.

Raccomandazioni:

Al primo appuntamento in gravidanza, a tutte le donne che non riportano determinazioni precedenti, va richiesta la determinazione della glicemia plasmatica per identificare le donne con diabete preesistente alla gravidanza. Sono definite affette da diabete preesistente alla gravidanza le donne con valori di glicemia plasmatica a digiuno  126 mg/dl (7,0 mmol/l), di glicemia plasmatica random  200 mg/dl (11,1 mmol/l), di HbA1c (standardizzata ed eseguita entro le 12 settimane)  6,5%. Indipendentemente dalla modalità utilizzata, è necessario che risultati superiori alla norma siano confermati in un secondo prelievo.

Nelle donne con gravidanza fisiologica è raccomandato lo screening per il diabete gestazionale, eseguito utilizzando fattori di rischio definiti.

A 16-18 settimane di età gestazionale, alle donne con almeno una delle seguenti condizioni:

  • diabete gestazionale in una gravidanza precedente;
  • indice di massa corporea pre-gravidico (BMI) > 30
  • riscontro, precedentemente o all’inizio della gravidanza, di valori glicemici compresi tra 100 e 125 mg/dl (5.6-6.9 mmol/mol)

deve essere eseguita una curva da carico con 75 g di glucosio (OGTT 75 g) e un ulteriore OGTT 75 g a 28 settimane di età gestazionale, se la prima determinazione è risultata normale.

Sono definite affette da diabete gestazionale le donne con uno o più valori di glicemia plasmatica superiori alle soglie riportate nella tabella 1.

A 24-28 settimane di età gestazionale, alle donne con almeno una delle seguenti condizioni:

  • età > 35 anni
  • indice di massa corporea pre-gravidico >25
  • microsomia fetale in una gravidanza precedente (>4.5 kg)
  • diabete gestazionale in una gravidanza precedente
  • anamnesi familiare politica per diabete (parente di primo grado con diabete di tipo 2)
  • etnia proveniente da aree ad alta prevalenza di diabete (asia meridionale, caraibi, medio oriente)

deve essere eseguita una OGTT 75 g.

Sono definite affette da diabete gestazionale le donne con uno o più valori di glicemia plasmatica superiori alle soglie riportate nella tabella 1.

Per lo screening del diabete gestazionale non devono essere utilizzati: glicemia plasmatica a digiuno, glicemia random, minicurva, glicosuria, OGTT 100 g.

E’ importante che la donna affetta da diabete gestazionale sappia che:

  • nella maggior parte dei casi, il diabete gestazione viene tenuto sotto controllo mediante modifiche dello stile di vita della paziente (dieta e attività fisica)
  • se queste strategie non dovessero risultare sufficienti, è necessario assumere insulina (10-20% dei casi)
  • se il diabete gestazionale non viene tenuto sotto controllo, può indurre complicazioni sia per la donna che per il nascituro, come la pre-eclampsia e la distocia di spalla.
  • le donne con diabete gestazionale hanno un aumentato rischio di sviluppare diabete melato di tipo 2, in particolare nei primi 5 anni dopo il parto.

6 settimane dopo il parto, le donne che hanno sofferto di diabete gestazionale, dovrebbero ripetere una OGTT 75 g.

diabete-gestazionale

Spesso il diabete gestazionale non si manifesta con sintomi evidenti. Si deve però fare attenzione ad alcuni possibili segnali:

  • aumento della sete
  • aumento della quantità di urina prodotta
  • perdita di peso nonostante aumento della fame
  • infezioni frequenti (per esempio cistiti, candidosi eccetera)
  • disturbi alla vista.

COMPLICANZE MATERNE E FETALI:

Il Diabete Gestazionale è una condizione asintomatica che aumenta il rischio di complicanzematerno-fetali anche gravi sia a breve che a lungo termine. Le complicanze neonatali sono la sindrome da Distress Respiratorio, la macrosomia, la distocia di spalla, l’ipoglicemia, la iperbilirubinemia, la policitemia e la ipocalcemia. Per macrosomia si intende un neonato con peso alla nascita > 4 Kg o > al 90° percentile rispetto all’epoca gestazionale. La macrosomia secondaria al diabete è caratterizzata da una circonferenza addominale aumentata, da visceromegalia e da una circonferenza cranica normale o piccola. Essa è dovuta alle alterazioni metaboliche che si verificano in corso di gravidanza e che modificano sia qualitativamente che quantitativamente il passaggio transplacentare di nutrienti con conseguente iperinsulinismo fetale. L ’ipoglicemia neonatale può esserne quindi la conseguenza in quanto , con la recisione del cordone ombelicale, viene meno l’apporto nutritivo materno mentre permane seppur in maniera transitoria l’ iperinsulinemia.

Le complicanze del neonato si possono manifestarsi alla nascita ma possono nterferire con le condizioni di salute a lungo termine: i bambini nati macrosomici hanno maggiori probabilità di essere sovrappeso od obesi in adolescenza e sono maggiormente predisposti a sviluppare il diabete di tipo 2.

Le complicanze materne del diabete gestazionale possono essere altrettanto gravi: taglio cesareo, aborto spontaneo, ipertensione gravidica, pielonefrite ed altre infezioni, poliidramnios, il partopretermine, l’ipoglicemia e la chetoacidosi.

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Diabete con microinfusore

microinfussore medea

Lo scopo della terapia insulina è, da sempre, quello di cercare di mimare il più fedelmente possibile quella che è la fisiologia del pancreas.

Il pancreas di un soggetto sano rilascia regolarmente piccole dosi di insulina nell’organismo per controllare i livelli di glicemia nel sangue. La quantità di insulina prodotta varia in base all’orologio interno di ciascun individuo, e a fattori come attività fisica, metabolismo, livello di stress e malattie. Durante l’assunzione di cibi, il pancreas rilascia un quantità extra di insulina per mantenere l’equilibrio glicemico. La terapia con microinfusore per insulina è, ad oggi, la terapia che riesce a riprodurre al meglio l’azione del pancreas in quanto fornisce costantemente insulina all’organismo, anche in dosi supplementari, se necessario. Il microinfusore permette di individualizzare al massimo la terapia insulinica, come fosse un abito cucito su misura, andando a coprire il fabbisogno insulinico sia basale (attraverso al creazione di più fasce orarie a seconda del fabbisogno del singolo paziente) sia dei boli post-prandiali.

In questo modo è possibile ottimizzare il controllo glicemico, non solo in termini di emoglobina glicata, ma soprattutto si agisce nel ridurre la variabilità glicemica.

IL MICROINFUSORE-1

Terapia con microinfusore per insulina e terapia insulinica tradizionale

Al contrario della terapia con microinfusore, la terapia insulinica tradizionale ha minore flessibilità e adattabilità alla vita del paziente, oltre a non corrispondere alle varie necessità dell’organismo nel corso della giornata (i pazienti che usano le penne di insulina spesso devono pianificare i pasti e altri aspetti della loro vita in base agli schermi insulinici).

Inoltre, la terapia con iniezioni comporta inevitabilmente una maggiore insulinizzazione dell’organismo perché dopo ogni iniezione l’insulina ‘ristagna’ in attesa di essere utilizzata nel corso delle ore seguenti e questo, col tempo, tende a ridurre la sensibilità all’insulina costringendo ad aumentare le dosi. Con il microinfusore, invece, gli stessi obiettivi metabolici possono essere raggiunti utilizzando un dosaggio inferiore di insulina rispetto alla terapia multiniettiva.

Un altro dato cardine, emerso da molteplici studi in letteratura, è la riduzione della frequenza e della gravità delle ipoglicemie nella maggior parte dei pazienti con microinfusore rispetto alla terapia standard multiniettiva. Del resto l’utilizzo di insuline a breve durata d’azione (rapide o ultrarapide), così come la maggiore precisione del dosaggio e il meccanismo di sospensione automatica dell’erogazione di insulina quando viene “letto” nel sangue un valore soglia di glicemia, spiegano chiaramente questo vantaggio della microinfusione.

L’ipoglicemia asintomatica colpisce circa 1/5 delle persone con diabete di tipo 1, in genere dopo alcuni anni di malattia o comunque nell’adolescenza, e consiste nella riduzione o scomparsa dei sintomi o dei prodromi di una crisi ipoglicemica. Mancando questi ‘segnali di allerta’ ci si accorge troppo tardi dell’ipoglicemia e questo rende spesso necessario l’intervento di altre persone o il ricovero in ospedale. Studi recenti hanno dimostrato che i segni premonitori dell’ipoglicemia vengono avvertiti tanto più facilmente quanto più rare e modeste sono le ipoglicemie, e viceversa ipoglicemie frequenti e gravi abbassano la soglia di risposta dell’organismo (se la soglia normale è 50, tende a diventare 40 o 30). Si crea così un circolo vizioso nel quale il paziente, proprio perché va spesso in ipoglicemia, non si accorge più dei segni premonitori. A sua volta, questa ‘ridotta sensibilità’ rende più serie e frequenti le ipoglicemie. Fortunatamente, la sensibilità all’ipoglicemia può essere migliorata se si riesce a mantenere per alcune settimane un controllo ottimale. In questo senso il microinfusore, che riduce il numero e la serietà delle crisi ipoglicemiche, è considerato uno strumento importante per ristabilire la sensibilità all’insulina.

Anche nei pazienti che soffrono del cosiddetto “fenomeno alba”(un rialzo dei valori glicemici, talvolta anche marcato, che caratterizza le ultime ore di sonno e che può essere rilevata al risveglio) possiamo ottenere dei vantaggi dalla microinfusione. Questa particolare iperglicemia, oltre a incidere sul controllo metabolico generale, rende anche difficile mantenere l’equilibrio glicemico durante tutta la giornata. Ovviamente non è facile rispondere a questa esigenza con la terapia multiniettiva. Gestire un fenomeno alba con il microinfusore è invece relativamente facile, grazie alla possibilità di suddividere la basale in diverse fasce orarie con velocità di insuioni differenti in modo da poter rispondere alla diverse esigenze dell’organismo: nel cao specifico, basterà impostare per la seconda parte della notte una velocità di infusione maggiore.

IL MICROINFUSORE-2
Perché le dosi di insulina sono proporzionali al peso e nei bambini piccoli può essere necessario utilizzare anche frazioni di Unità di insulina, cosa che non è facile con le normali siringhe. Per la stessa ragione l’uso del microinfusore può risultare vantaggioso in quei soggetti che presentano estrema sensibilità all’insulina. Inoltre il microinfusore offre quella che gli esperti chiamano una maggiore riproducibilità della dose effettivamente utilizzata. Detto in altre parole, l’insulina iniettata con microinfusore è resa disponibile nell’organismo esattamente nella quantità desiderata ed esattamente nei tempi previsti. Clinicamente meno importante (ma non per i genitori) il fatto che molti bambini sviluppano una vera agofobia, un terrore e una sensazione di dolore assolutamente sproporzionata al fastidio della puntura. Infine, l’adolescenza è caratterizzata da forti oscillazioni della glicemia nell’arco della giornata e da marcato fenomeno alba, tutte situazioni che possono essere meglio controllate con un microinfusore.

Cos’è un microinfusore di insulina?

IL MICROINFUSORE-3

I microinfusori di insulina rilasciano insulina attraverso un tubo sottile e un’agocannula (set di infusione) inserita sottocute.

I microinfusori di insulina sono dispositivi portatili di piccole dimensioni, paragonabili a un cellulare o a un lettore MP3, che rilasciano insulina ad azione rapida 24 ore su 24 attraverso un tubo sottile e un’agocannula (set di infusione) inserita sottocute.

Anche quando si utilizza un microinfusore di insulina è necessario monitorare i livelli glicemici nel corso della giornata. Le dosi di insulina verranno impostate e adeguate in base all’assunzione di cibo e all’attività fisica praticata. Il set di infusione deve essere sostituito ogni 2-3 giorni.

Il microinfusore presenza numerose funzioni speciali come ad esempio la basale temporanea, il bolo ad onda doppia o quadra, gli allarmi o il calcolatore di boli “bolus wizard” che, con il tempo, il paziente imparerà ad usare in base alle proprie esigenze, al fine di migliorare sempre più la propria qualità della vita.

I soggetti con diabete di tipo 1 possono ricorrere alla terapia insulinica con microinfusore senza limitazioni per quel che riguarda l’età. Tuttavia, sarà il medico curante a stabilire se tale terapia sia adatta al caso specifico

 

 

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La dieta dopo le vacanze natalizie

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Nel periodo natalizio, complici l’atmosfera, le riunioni familiari, lo scambio dei doni e degli auguri, spesso e volentieri ci si ritrova intorno ad una tavola imbandita in cui è impossibile dire no alle pietanze tipiche e caloriche, ai dolci caratteristici e super farciti, a qualche alcolico di troppo.

Lasciarsi andare ogni tanto e godersi, anche da un punto di vista alimentare, i giorni di festa non è di per sé sbagliato, anzi: a giovarne ne è soprattutto l’umore. L’importante è non farsi assalire dai sensi di colpa o dalla disperazione per un paio di chili di troppo, regalo indesiderato delle festività. Quello che conta è armarsi di pazienza, determinazione e buona volontà e riprendere un’alimentazione equilibrata, dopo un periodo di eccessi.

Il primo passo per ritornare ad uno stile di vita sano è eliminare dal frigorifero residui di dolci, bibite gassate e altri alimenti che sono stati consumati durante le feste e sostituirli con cibi più salutari ed ipocalorici.

Non è necessario sottoporsi a diete drastiche o saltare i pasti, che risulterebbe controproducente, ma semplicemente ripristinare una dieta equilibrata, composta da cinque pasti al giorno.

Le regole fondamentali di un’alimentazione sana risiedono sempre nei principi di consumare abbondanti porzioni di verdure di stagione, crude o cotte, preferire carboidrati integrali, cereali, legumi, pesce azzurro e carni magre. Consumare due porzioni di frutta fresca al giorno, non dopo i pasti principali, ma agli spuntini.

Al ripristino di un’adeguata attenzione alimentare, va sempre ricordato che è fondamentale una corretta idratazione corporea (introducendo 2 litri di acqua al giorno, anche tisane vanno bene), e di associare sempre una regolare attività fisica. L’ideale sarebbe svolgere un’attività sportiva aerobica almeno 3 volte a settimana, per un minimo di 40 minuti per sessione, ma se questo non fosse possibile, cerchiamo almeno di cogliere occasione di movimento durante la giornata: se possibile privilegiare la bicicletta all’automobile, fare una passeggiata a passo sostenuto, usare le scale anziché l’ascensore, parcheggiare ad una certa distanza dal posto di lavoro.

Nel periodo invernale, oltre alla problematica dei chili di troppo dopo le vacanze natalizie, sussiste l’epidemia influenzale. Naturalmente questa è causata da una patologie virale, ma anche in questo campo riveste un ruolo importante la cura dell’alimentazione, sia in termini di prevenzione (cattive abitudini alimentari tendono a indebolire il nostro sistema immunitario), sia in termini di rapidità ed efficacia della guarigione.

Le temperature basse aumentano la spesa, e quindi la richiesta, energetica dell’organismo: per prevenire la sindrome influenzale o per facilitare la guarigione, occorre una dieta ricca di acqua, sali, carboidrati e proteine. Fondamentale è l’introito di vitamine e minerali che possiamo assorbire dalla frutta di stagione: agrumi, mele, kiwi sia freschi che in spremute rispondono alle nostre necessità di vitamina C.

Se la sindrome influenzale dovesse causare inappetenza, non obblighiamoci a mangiare: l’importante è che l’organismo sia ben idratato, magari sorseggiando delle spremute o delle centrifughe di frutta e/o verdura.

E’ buona norma scegliere cibi appetibili, ma allo stesso tempo leggeri e facilmente digeribili: passati di verdure, carni bianche e pesce sono dei validi alleati.

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Noduli Tiroidei

noduli tiroide medea

I noduli tiroidei, singoli o multipli, sono tra le patologie endocrine più frequenti.

Spesso il riscontro di un nodulo avviene in modo del tutto casuale, ad esempio eseguendo un’ecografia dei tronchi sovraortici.

La prevalenza dei noduli tiroidei aumenta con l’avanzare dell’età. Sono più frequenti nel sesso femminile, nelle aree a carenza di iodio e nei soggetti sottoposti ad irradiazione tiroidea.
Alla palpazione si apprezzano solitamente i noduli con diametro maggiore di 1 cm, a meno che il nodulo non sia molto superficiale o localizzato all’istmo, in tal caso si apprezzano anche noduli di dimensioni minori.

Di fronte al riscontro di noduli tiroidei devono essere stabiliti: la loro natura, la loro funzione e quella globale della ghiandola e i loro eventuali effetti meccanici sulle strutture adiacenti.

La maggior parte dei pazienti con un nodulo tiroideo o un gozzo multinodulare è asintomatica.
I sintomi lamentati riguardano essenzialmente la compressione delle strutture del collo o dello stretto toracico superiore (e quindi provocati da noduli di grandi dimensioni): senso di soffocamento e tosse stizzosa, disfagia soprattutto per i liquidi, difficoltà a dormire in posizione supina.

Nei casi più gravi, a causa della compressione tracheale possono comparire dispnea e stridore inspiratorio. Più rare sonola disfonia da paralisi del ricorrente o la paresi del nervo frenico o della catena del simpatico cervicale. In tale evenienza il sospetto di una neoplasia tiroidea è molto forte.
La possibilità di rilevare palpatoriamente i noduli dipende dal loro volume, sede e localizzazione nell’ambito del parenchima tiroideo e dall’anatomia del collo del paziente.

Nello struma multinodulare alcuni noduli possono andare incontro nel tempo ad autonomizzazione con evoluzione verso l’ipertiroidismo (basedowificazione).

Il diametro del nodulo sembra essere un elemento cruciale: noduli con diametro > di 3 cm alla diagnosi hanno un rischio di sviluppare ipertiroidismo del 20% contro il 5% di rischio in noduli con diametro inferiore ai 2.5 cm.

E’ stato affermato che il 10% circa degli strumi multinodulari subiscano questa evoluzione a 10 anni dalla diagnosi.

Più rara è l’evoluzione verso l’ipotiroidismo.
Il rischio di carcinoma nell’ambito di un nodulo tiroideo isolato non iperfunzionante o di uno struma multinodulare è stimato del 5%. Tale prevalenza aumenta in caso di pregressa irradiazione del collo.

DIAGNOSI

Esami di laboratorio

Esiste consenso unanime sul fatto che in un paziente con riscontro casuale di uno o più noduli tiroidei si debba procedere alla valutazione della funzionalità tiroidea.

Il dosaggio della tireoglobulina non riveste significato clinico nella diagnosi di nodulo tiroideo essendo frequentemente elevata, in modo del tutto aspecifico.
Tale parametro riveste invece un ruolo fondamentale nel follow up dei carcinomi tiroidei dopo tiroidectomia ed ablazione del tessuto tiroideo residuo in quanto, essendo prodotta solo dal tessuto tiroideo, rappresenta un ottimo marker di persistenza o recidiva di malattia.
La calcitonina è il marker del carcinoma midollare della tiroide (CMT) e la sua concentrazione plasmatica è direttamente proporzionale alla massa tumorale.
I CMT rappresentano meno del 10% dei tumori tiroidei che a loro volta costituiscono circa il 5% dei noduli tiroidei; pertanto il rischio di CMT nell’ambito dei noduli tiroidei è intorno allo 0.5%.

Esami strumentali

ECOGRAFIA

L’ecografia è l’esame strumentale di prima istanza, permette di evidenziare lesioni nodulari non rilevabili palpatoriamente, permette la stima delle dimensioni dei singoli noduli e serve da guida nell’esecuzione dell’agoaspirato. E’ una metodica la cui accuratezza dipende dall’esperienza dell’operatore. Sempre più spesso l’esame viene effettuato dallo stesso endocrinologo che può essere così orientato sulla opportunità o meno di procedere all’agoaspirato.

SCINTIGRAFIA

Attualmente il suo ruolo si è molto ridimensionato. Esso mantiene la sua piena utilità nella valutazione funzionale dei noduli tiroidei.

I noduli vengono differenziati in caldi, freddi o isocaptanti. I noduli caldi rappresentano adenomi dotati di autonomia funzionale e capacità di inibire la captazione da parte del tessuto tiroideo sano; possono essere “tossici” quando producono un eccesso di ormoni tiroidei. I noduli isocaptanti sono caratterizzati da tessuto normofunzionante. I noduli freddi sono caratterizzati da tessuto ipo- o non funzionante.

Gli isotopi utilizzati nella pratica clinica sono tre: 99Tc, 123I e 131I.

I noduli scintigraficamente freddi sono il 77-94% dei noduli. Il rischio di malignità di tali lesioni è stato definito tra 8 e 25%.

L’utilizzo principale della scintigrafia tiroidea rimane la diagnostica dei noduli iperfunzionanti (sia solitari che nell’ambito di uno struma multinodulare) soprattutto in vista di una terapia radiometabolica.

TAC, RMN e PET

TAC e RMN, a differenza dell’ecografia, consentono la visualizzazione della componente retrosternale di uno struma e dell’eventuale compressione tracheale.

Esse vengono pertanto riservate ai pazienti con sintomatologia dispnoica o sindrome dello stretto toracico sostenuta da struma a prevalente estrinsecazione retrosternale.

Le due metodiche non sono in grado di differenziare lesioni benigne e maligne. Assumono invece un ruolo importante nella ricerca di metastasi linfonodali nel follow up dei carcinomi tiroidei. Al contrario la PETcon 2 desossi-2 fluoro-D-glucosio ha dimostrato una buona capacità diagnostica sui noduli maligni.

AGOASPIRATO (FNAB)

Attualmente l’agoaspirato viene considerato il metodo più affidabile per distinguere la natura dei noduli tiroidei. E’ una metodica di semplice esecuzione e a basso costo, eseguita in regime ambulatoriale e esente da complicazioni (la più frequente è rappresentata dalla formazione di un ematoma a livello della zona di aspirazione, che può essere prevenuta dall’applicazione di ghiaccio per alcuni minuti).

Riguardo all’indicazione di eseguire un agoaspirato, in caso di riscontro casuale di nodulo/i tiroideo, le linee guida statunitensi consigliano di biopsiare solo i noduli palpabili con diametro maggiore o uguale a 15 mm, a meno che il nodulo non presenti caratteri ecografici sospetti o che il paziente presenti fattori di rischio per carcinoma tiroideo (pregressa irradiazione del collo, famigliarità per carcinomi tiroidei, famigliarità per carcinoma midollare, aumento volumetrico del nodulo durante il follow-up).

Per i noduli tiroidei non palpabili sono stati identificati criteri ecografici sospetti di malignità: irregolarità dei margini, vascolarizzazione intranodulare, presenza di microcalcificazioni, unicità della lesione, ipoecogenicità del nodulo, diametro > 10 mm.

TERAPIA

Non esiste a tutt’oggi un trattamento per i noduli singoli o per lo struma normofunzionante una volta escluso il rischio di malignità.
Il riscontro di uno o più noduli tiroidei non deve allarmare, ma solo portare alla consulenza di uno specialista che, dopo aver richiesto  gli esami  opportuni, valuterà se sia il caso di monitorarlo con periodiche ecografie o se instaurare una terapia farmacologica o chirurgica.

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Osteoporosi

osteoporosi medea

L’osteoporosi rappresenta la più frequente affezione metabolica dell’osso ed una delle più importanti patologie legate all’età. Essa non si caratterizza soltanto per la riduzione della densità minerale ossea, ma anche per il deterioramento della qualità ossea che incide enormemente sul rischio di fratture.

Le fratture osteoporotiche più frequenti sono quelle vertebrali: una frattura vertebrale aumenta di 5 volte il rischio di una nuova frattura vertebrale entro un anno dall’evento e se si verifica dopo i 50 anni di età raddoppia il rischio di frattura di femore; inoltre, le fratture da fragilità legate all’osteoporosi si associano ad una sintomatologia dolorosa grave e ad un decadimento della qualità della vita.

L’osteoporosi è un disordine scheletrico caratterizzato da una riduzione della massa e della  resistenza ossea, causata da fattori nutrizionali, metabolici o patologici, che predispone ad un aumento del rischio di frattura. Un cambiamento nella composizione o nelle proprietà strutturali del tessuto osseo o l’incapacità di adattare queste caratteristiche al carico provoca una fragilità dell’osso.

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Vengono definite “primitive” le forme di osteoporosi che compaiono dopo la menopausa (postmenopausale) o comunque con l’avanzare dell’età (senile). Le osteoporosi “secondarie”sono quelle determinate da un ampio numero di patologie e farmaci.

L’osteoporosi rappresenta una malattia di rilevanza sociale. La sua incidenza aumenta con l’età sino ad interessare la maggior parte della popolazione oltre l’ottava decade di vita.

Si stima che circa 75 milioni di individui in Nord Europa, Stati Uniti e Giappone siano affetti da osteoporosi e che una donna su tre ed un uomo su cinque andrà incontro ad una frattura da fragilità, con una stima del rischio per le fratture più frequenti (femore prossimale, corpi vertebrali, radio distale) del 40%, simile cioè al rischio di cardiopatia ischemica e, relativamente al sesso femminile, con una mortalità legata alle complicanze della frattura di femore pari a quella dovuta al carcinoma mammario.

Le proiezioni future sembrano mostrare uno scenario ancora più inquietante, con un incremento previsto per le fratture di femore entro il 2050 pari al 310% negli uomini ed al 240% nelle donne.

Fattori di rischio

L’osteoporosi e la frattura osteoporotica hanno una patogenesi multifattoriale. Alcuni fattori aumentano il rischio fratturativo mediante la riduzione della massa ossea (BMD). Essi sono:

  • Sesso femminile (nei maschi la massa ossea è maggiore)
  • Menopausa prematura (<45 anni)
  • Amenorrea primaria o secondaria
  • Ipogonadismo maschile primitivo o secondario
  • Etnia europea o asiatica
  • Bassa BMD
  • Eccessivo consumo di alcolici
  • Immobilizzazione protratta (una vita sedentaria e la mancanza di esercizio fisico possono determinare una riduzione delle forze meccaniche sull’osso)
  • Basso apporto di calcio
  • Carenza di vitamina D

Altri ancora aumentano il rischio di frattura anche indipendentemente dalla densità minerale ossea e sono:

  • Eta
  • Storia di fratture atraumatiche
  • Trattamento cortisonico
  • Elevato turnover osseo
  • Familiarita per frattura di femore
  • Scarsa acuita visiva
  • Basso peso corporeo
  • Malattie neuromuscolari
  • Fumo di sigaretta

 

Quadro clinico

I pazienti con osteoporosi non complicata sono in genere asintomatici. Il primo sintomo soggettivo è il dolore, dovuto alle fratture che si verificano per piccoli traumi o anche senza trauma apparente, generalmente alla regione lombare e toracica della colonna, al collo del femore, o alla regione distale dell’avambraccio (frattura di Colles). Le fratture più frequenti sono quelle da collasso dei corpi vertebrali della regione dorsolombare che possono determinare un dolore acuto, irradiato a fascia anteriormente.

Le fratture più frequenti nella forma postmenopausale sono quelle di polso e di vertebra, ed interessano tipicamente donne di età compresa tra 50 e 65 anni.

Diagnosi

  • anamnesi del paziente (storia clinica) e della famiglia (positività per fratture);
  • esame obiettivo:
  • Mineralometria Ossea Computerizzata (MOC), esame Gold-Standard per definire la densità ossea; comunemente eseguita tramite MOC-DEXA (Dual Energy X ray Absorptiometry) della colonna lombare e del femore non dominante;
  • analisi del sangue di routine e parametri del metabolismo tiroideo, epatico, renale, surrenale, ipofisario e osseo;
  • esami radiologici per riscontrare eventuali fratture (radiografie, TC o RMN).

DXA/MOC della colonna lombare e del femore non dominante: indagine a cui dovrebbero sottoporsi tutte le donne di età superiore ai 65 anni, se sono presenti fattori di rischio nel primo periodo post-menopausale, e dopo i 70 anni negli uomini con fattori di rischio presenti o meno.

L’indagine densitometrica consente oggi di misurare in modo abbastanza accurato e preciso la massa ossea e rimane il miglior predittore del rischio di fratture osteoporotiche.

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Diagnosi bioumorale:

Una idonea valutazione ematochimica è raccomandata, soprattutto nei pazienti con forme di osteoporosi o anche di osteopenia più pronunciate a quanto atteso per l’età.

Il laboratorio può considerarsi un utile complemento nella diagnostica dell’osteoporosi i quanto:

  • può consentire una diagnosi differenziale con altre malattie che possono determinare un quadro clinico o densitometrico simile a quello dell’osteoporosi;
  • può individuare possibili fattori causali, consentendo una diagnosi di osteoporosi secondaria e quindi, dove possibile, un trattamento eziologico.

Esami di primo livello: emocromo con formula, VES, calcemia, fosfatemia, fosfatasi alcalina ossea, calciuria e fosfaturia delle 24 ore, protidogramma elettroforetico.

Esami di secondo livello:  PTH, TSH, calcio ionizzato, 25-OH-vitamina D3, testosterone libero (negli uomini), somatotropina, cortisolo libero urinario delle 24 ore.

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Terapia

I provvedimenti non farmacologici di prevenzione e trattamento sono:

Apporto di calcio e vitamina D

L’introito medio giornaliero di calcio nella popolazione italiana risulta insufficiente, specie in età senile. Ancora più drammatica è l’incidenza di ipovitaminosi D specie tra gli anziani.

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Queste carenze alimentari contribuiscono ad aumentare il rischio di osteoporosi, fratture osteoporotiche e morbilità generale.

Il fabbisogno quotidiano di calcio varia a seconda dell’età e di determinate condizioni. (tab. 4.1).

E’ possibile stimare all’anamnesi l’introduzione alimentare di calcio tenendo conto che :

–Il latte e lo yogurt contengono 120 mg di calcio per 100 ml;

–I formaggi stagionati contengono circa 1000 mg di calcio per 100 g;

–I formaggi freschi contengono circa 500 mg di calcio per 100 g;

–La quota di calcio contenuta negli altri alimenti assunti durante la giornata (esclusi latte e derivati) è complessivamente di circa 250 mg;

–L’eventuale consumo di acqua minerale ad alto contenuto calcico va conteggiato a parte (le acque più ricche di calcio arrivano a contenerne circa 350 mg per litro).

Le dosi consigliabili di supplementi di calcio vanno commisurate al grado di carenza alimentare (in generale tra 500 e 1000 mg/die). La sola supplementazione con calcio si è dimostrata capace di produrre modesti incrementi densitometrici in soggetti con apporto carente ed in menopausa da oltre 5 anni.

Con la somministrazione di solo calcio (con un introito giornaliero complessivo di 1200 mg o più), è stata riportata una lieve riduzione del rischio di fratture, in particolare negli anziani, ma la documentazione più convincente di efficacia è disponibile quando somministrato in associazione con vitamina D, la quale riduce anche il rischio di cadute.

Altri nutrienti

L’aumento dell’apporto proteico in soggetti con inadeguato introito riduce il rischio di fratture del collo femorale in entrambi i sessi. Un adeguato apporto proteico è infatti necessario per mantenere la funzione del sistema muscolo-scheletrico, ma anche per ridurre il rischio di complicanze dopo una frattura osteoporotica. Per altri elementi non vi sono evidenze di correlazione con rischio di frattura o densità minerale nelle donne.

La riduzione dell’introito di alcool si accompagna a miglioramento della salute ossea e a riduzione del rischio di cadute.

Un consumo elevato di caffeina (>4 tazzine/die), è stato da taluni associato ad un incremento del rischio di frattura di femore in entrambi i sessi.

Sono stati riportati effetti negativi sulla densità minerale ossea da parte di un introito alimentare di sodio superiore a 2100 mg (90 nmoli) sia nelle donne che negli uomini.

Attività fisica

E’ noto che periodi anche brevi di immobilizzazione sono particolarmente deleteri per la massa ossea ed è quindi importante mantenere un minimo grado di attività fisica. Studi hanno dimostrato che l’attività fisica sotto carico è in grado, nelle donne in postmenopausa, di prevenire l’1% della perdita minerale ossea annuale e che il beneficio maggiore è a carico della colonna vertebrale.

Un’attività fisica esasperata agonistica in giovani donne può comportare alterazioni ormonali e nutrizionali che possono essere deleterie per l’osso.

Buona parte delle fratture, specie di femore, sono da collegare a cadute, i cui fattori di rischio (disabilità motoria, disturbi dell’equilibrio, patologie neuromuscolari, deficit visivi, patologie cardiovascolari, cadute anamnestiche, trattamenti farmacologici, deficit cognitivi) sono spesso modificabili in un contesto di interventi multidisciplinari.

L’attività fisica, in particolare esercizi personalizzati di rinforzo muscolare e di rieducazione all’equilibrio ed alla deambulazione, hanno mostrato di ridurre negli anziani sia il rischio di cadute, che di traumi correlati.

Trattamento farmacologico

Il trattamento dell’osteoporosi deve essere finalizzato alla riduzione del rischio di frattura. I provvedimenti non farmacologici (dieta, attività fisica) o l’eliminazione di fattori di rischio modificabili (fumo, igiene di vita), dovrebbero essere raccomandati a tutti.

Al contrario l’utilizzo di farmaci specifici è condizionato dalla valutazione del rapporto rischio/beneficio.

La decisione di intraprendere una terapia per l’osteoporosi non può tenere in considerazione esclusivamente le indagini strumentali o bioumorali eseguite, perché altrimenti si ignorerebbero importanti fattori che concorrono a delineare il rischio fratturativo del singolo paziente.

Farmaci approvati per il trattamento dell’osteoporosi

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Piede Diabetico

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Le complicanze croniche del Diabete mellito che si estrinsecano a carico di vari organi e sistemi, sono dovute a danni dei vasi di piccolo e grande calibro (micro e macroangiopatia) e del sistema nervoso (neuropatia).

Il piede diabetico può essere una manifestazione sia di un danno arterioso (arteriopatia diabetica) sia di un danno nervoso (neuropatia diabetica) degli arti inferiori, compromettendo la funzione e/o la struttura del piede. Il piede ischemico è dovuto ad una insufficiente apporto di sangue agli arti inferiori, mente il piede neuropatico è dovuto ad un’alterazione dei nervi che controllano la sensibilità e la motricità degli arti inferiori. Spesso le due alterazioni coesistono ed entrambe si possono complicare per la sovrapposizione di un’infezione.

Il piede diabetico, come tutte le altre complicanze croniche della malattia diabetica è dovuto ad un cattivo controllo della glicemia e degli altri fattori di rischio cardiovascolare (pressione arteriosa, colesterolo, fumo, ecc.), che rappresenta il cardine della prevenzione.

 

È importante che il paziente sia a conoscenza della possibilità che questa patologia complichi il decorso del diabete così come della sua gravità, dato che essa rappresenta la principale causa di amputazione non traumatica degli arti inferiori  e può anche portare al decesso del paziente, per lo sviluppo di una gangrena e il diffondersi dell’infezione.

Una adeguata educazione terapeutica volta alla quotidiana cura ed igiene del piede è fondamentale in prevenzione primaria. Il paziente deve pertanto rivolgersi al diabetologo e chiedere notizie sulle condizioni dei proprio piedi, onde prevenire questa temibile complicanza cronica.

Il piede vascolare (ischemico) ha un aspetto assottigliato, la pelle è sottile e di colorito pallido, la temperatura cutanea è diminuita (piede “freddo”), le vene sono esili e la pulsazione delle arterie è ridotta o assente.

Il piede neuropatico è spesso deformato, la pelle è secca, di colorito alterato, con ipercheratosi (calli), alterazioni delle unghie e spesso infezioni da funghi, la temperatura cutanea è tendenzialmente aumentata, la pulsazione delle arterie è nella norma.

Le ulcere sono delle escavazioni più o meno profonde dovute ad alterazioni delle arterie o dei nervi. Quelle vascolari sono di dimensioni limitate, con margini netti e fondo frequentemente infetto e necrotico, spesso localizzate alle estremità del piede, soprattutto al tallone e sulla punta delle dita, spesso dolenti. Al contrario, quelle neuropatiche sono di dimensioni variabili, con bordi sfrangiati e scollati e fondo torbido, localizzate soprattutto sulla pianta a livello delle teste metatarsali, in genere non dolenti.

In generale il danno dei nervi è il principale fattore predisponente l’insorgenza della lesione (soprattutto per la mancanza della sensibilità al dolore che impedisce al paziente di rendersi conto che si sta formando una lesione provocata ad esempio da un corpo estraneo e da un contatto anomalo con la calzatura), mentre il danno delle arterie è il principale fattore determinante l’esito della lesione (in quanto ripristinare il normale apporto di sangue agevola notevolmente i processi di guarigione)

La diagnosi di piede diabetico viene effettuata in base alla presenza di una ulcerazione che si associa ad alterazioni dei nervi e/o delle arterie degli arti inferiori.

La prevenzione delle patologie degli arti inferiori inizia con il buon controllo della glicemia e degli altri fattori di rischio cardiovascolare, che rappresentano il miglior modo per evitare tutte le complicanze del diabete.

Inoltre, per quanto riguarda specificamente il piede diabetico, è necessario effettuare uno screening di questa patologia, presso un diabetologo con cadenza almeno annuale.

Educazione terapeutica (PREVENZIONE PRIMARIA)

  • Fare ogni giorno un’accurata ispezione e igiene dei piedi
  • Controllare la temperatura dell’acqua con un termometro o con il gomito prima di immergervi i piedi
  • Asciugare bene e delicatamente i piedi
  • Calzare sempre le scarpe con calze che non stringano e cambiarle ogni giorno
  • Utilizzare creme specifiche se la pelle del piede e delle gambe è secca
  • Non curare le callosità con callifughi e/o oggetti taglienti
  • Tagliare le unghie con forbici a punte smusse e arrotondarle con una lima di cartone
  • Non camminare mai a piedi scalzi
  • Non utilizzare fonti di calore dirette (borse di acqua calda, camino, calorifero, etc.)
  • Calzare scarpe comode con punta rotonda e tacco non superiore ai 4 centimetri
  • Controllare accuratamente i piedi dopo alcuni minuti di cammino con scarpe nuove

È fondamentale rivolgersi all’ambulatorio del piede diabetico in presenza di:

  • una qualsiasi lesione a livello dei piedi (calli, graffi, ulcere, cancrena)
  • dolore o formicolio oppure ridotta sensibilità alle gambe e ai piedi (spia di una lesione dei nervi)
  • arrossamento della cute delle gambe e/o dei piedi (possibile indice di infiammazione
  • difficoltà a camminare
  • deformazione evidente dei piedi
  • rossore, infiammazione e gonfiore a livello di un’unghia del piede

In presenza di una lesione ulcerativa:

  • Controllo della glicemia e degli altri fattori di rischio cardiovascolare (pressione arteriosa, colesterolo, fumo, ecc.)
  • Trattamento locale della lesione (medicazione e asportazione del materiale infetto o necrotico)
  • Ripristino dell’apporto di sangue (rivascolarizzazione) con procedure endovascolari o chirurgiche
  • Trattamento aggressivo di eventuali infezioni con antibiotici mirati
  • Scarico delle pressioni sulla lesione mediante uso di plantari e calzature apposite
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Sindrome dell’Ovaio Policistico

Ovaio policistico Medea

POLICISTOSI OVARICA

La sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) o Sindrome di Stein-Leventhal è una patologia endocrino-metabolica che colpisce in tutto il mondo il 5-10% della popolazione femminile in età fertile ed è la causa più frequente di infertilità femminile.

Non si conosce la causa, ma molti studi sottolineano l’importanza della genetica nel determinare la patologia.

I sintomi più comuni sono: anovulazione , eccesso di ormoni androgeni e resistenza all’insulina. L’anovulazione si manifesta come mestruazioni irregolari, amenorrea e infertilità. Lo squilibrio ormonale causa acne e irsutismo. La resistenza all’insulina provoca obesità, diabete di tipo 2 e ipercolesterolemia. I sintomi e la gravità della patologia variano da soggetto a soggetto.

Manifestazioni cliniche

  • Alterazioni del ciclo mestruale, per esempio oligomenorrea (ciclo di durata superiore a 35 giorni) e l’amenorrea (assenza di mestruazioni);
  • Infertilità femminile;
  • Alopecia androgenica, ossia perdita dei capelli tipica del sesso maschile;
  • Acne, pelle unta e dermatite seborroica;
  • Iperandrogenismo (elevati livelli nel sangue di ormoni maschili) che causano irsutismo aumento della crescita dei peli anche in zone tipicamente maschili come il torace, il dorso, il mento e le guance, la linea alba ombelicale
  • Obesità centrale, ossia obesità che si concentra nella metà inferiore del torace, dando al tronco la caratteristica forma a mela;

Rischi

Le donne che soffrono di questa sindrome corrono il rischio di:

  • Iperplasia e carcinoma dell’endometrio;
  • Insulino-resistenza o diabete mellito, conseguenze dell’iperinsulinemia;
  • Ipertensione;
  • Disturbi del metabolismo lipidico;
  • Malattie cardiovascolari.

Diagnosi

Generalmente, l’insorgenza della malattia è in epoca adolescenziale, anche se la diagnosi può essere posta, nelle forme meno gravi, intorno ai 30 anni, proprio indagando sulle cause d’infertilità.

Tuttavia, bisogna precisare che esiste una grossa variabilità tra una paziente e laltra: si va da condizioni poco sintomatiche, con sole alterazioni del ciclo, mestruale, sino a situazioni in cui si possono avere contemporaneamente amenorrea, irsutismo ed obesità.

Le ovaie si presentano, generalmente, ingrandite bilateralmente; all’ecografia si osserva un tipico aspetto micropolicistico, prevalentemente nella zona corticale.

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Il riscontro laboratoristico di elevati livelli sierici di androgeni, un alterato rapporto LH/FSH, una iperinsulinemia ed insulin-resistenza sono parametric riscontrabili in queste pazienti.

Trattamenti

La terapia deve tendere a rompere il circolo vizioso dell’anovulazione cronica. Si basa pertanto su:

  • correzione dello stile di vita mediante dieta e attività fisica. La conseguente perdita di peso e la riduzione della massa adiposa comporta un miglioramento dell’insulinoresistenza, una minor produzione periferica di androgeni e una minore trasformazione di questi ultimi in estrogeni. Spesso la sola attività fisica, associata ad adeguate misure dietetiche, stimola la crescita dei follicoli e il ripristino spontaneo dell’ovulazione.
  • terapia estro-progestinica con lo scopo di preservare l’ovaio da un’eccessiva distruzione dei follicoli che potrebbe portare ad infertilità
  • modulazione della secrezione androgenica attraverso farmaci anti androgeni
  • miglioramento dell’insulino-resistenza (metformina)
  • supplementazione vitaminica con acido folico come adiuvante in associazione o meno a metformina